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PERCHE' VOGLIONO ABOLIRE L'ARTICOLO 18



In questi mesi si riprendono quasi quotidianamente le questioni legate al cambiamento di una parte della legge 300 del 1970, a molti nota come Statuto dei Lavoratori. In particolare sono ormai 10 anni che il mondo politico discute di un pezzo specifico, l'articolo 18. Da quando cioe' l'allora ministro del Welfare leghista Roberto Maroni (attraverso il Disegno di legge delega n. 848-S) ne propose la sospensione sperimentale per i neo-assunti per la durata di 3 anni e che portò in piazza tre milioni di lavoratori il 23 Marzo al Circo Massimo a Roma. Ora l'attuale ministro Elsa Fornero ci riprova distinguendo tra licenziamento disciplinare e licenziamento economico in cui nel secondo caso si presuppone un giustificato motivo oggettivo, legato alle difficoltà tecniche, produttive o organizzative dell’impresa. Va da se che la differenza tra i due tipi di licenziamento, e' troppo labile e facilmente aggirabile dalle imprese (che potrebbero mascherare da “economici” dei licenziamenti che in realtà sono discriminatori). Si gioca con le parole. Innanzitutto quando vi parlano di riforma del mercato del lavoro e' falso. Semmai e' una controriforma del mercato del lavoratore. Il lavoro si riforma quando la direzione amministrativa ministeriale mette mano alla struttura delle regole di scambio, delle imposte, della concorrenza imprenditoriale, decide quali settori produttivi incentivare, studia quali aree geografiche aiutare, implementa gettiti finanziari per l'avviamento di nuove attività, disciplina i rapporti dei vari gruppi di interesse. Il mercato del lavoro e' tutto l'insieme che comprende datore e dipendente, impresa e sindacato, diritto e risorse umane. Ed una riforma ha come incipit metodologico il miglioramento del benessere di tutti gli elementi che interagiscono nell'apparato economico. Qui invece siamo di fronte ad una presa gestionale dell'esclusivo pacchetto che riguarda lo status di una parte della forza capitale. Il lavoratore. E le intenzioni su di esso sono tutt'altro che migliorative e rivolte al suo progresso sociale. I motivi sono presto detti: i diritti che i lavoratori hanno acquisito nel corso delle lotte operaie e che li hanno portati dall'essere schiavi all'inizio della Rivoluzione Industriale a uomini nel XXI secolo, hanno ridotto la possibilità da parte del capitalista di realizzare il massimo dei profitti possibili. In soldoni, maggiori sono le garanzie sociali che un lavoratore ha acquisito, maggiori sono i costi di produzione dell'imprenditore capitalista e quindi meno ricavo ha quest' ultimo. Per questo motivo il capitalismo ha adottato come scorciatoia il trasferimento e la delocalizzazione in nazioni dove non esistono per niente o quasi i diritti sindacali. Perché e' più basso l'onere del costo del lavoro. Ovviamente non tutto può essere decentrato all'estero, e quindi per le imprese che rimangono in Italia, l'unico modo di aggirare l'ostacolo e' l'abbattimento dei diritti affermati. Come? Abrogando tutte quelle norme che fino ad ora hanno garantito le masse lavoratrici. L'attacco e lo smembramento della legislazione pro-labour e' arrivato purtroppo anche dal fuoco amico. Da quel pacchetto-Treu che introduce abomini quali il lavoro somministrato temporaneo e il riconoscimento delle agenzie interinali (1). Si accetta il concetto di flessibilità in cambio della diminuzione dei tassi di disoccupazione per coloro che entrano nel mercato, ma come in seguito accadrà, anche i lavoratori assunti a ruoli indeterminati correranno seri pericoli. Nel 2003 arriva infatti la famigerata legge 30, famosa come Legge Biagi ma che poco ha a che vedere col giurista assassinato. Lo spartiacque giuridico peggiorativo prevede infatti l' estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo determinato (2). Si introducono il lavoro a chiamata, quello coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite. Tutte formule che premiano una forte mobilita' di entrata e uscita ma senza tener minimamente conto del bisogno di stabilita' retributiva, psicologica, competenziale e vitale. L'individuo e' soggetto agli umori del mercato con l'aggravante di non poter accedere agli ammortizzatori sociali e di non riuscire a dare continuità ai versamenti pensionistici. La sua professionalità viene mortificata non solo da salari scarsi ed insoddisfacenti ma dall'estrema frammentazione del tempo che ha a disposizione per mostrare il suo valore. L 'ISTAT ha individuato qualcosa come 48 differenti tipi di lavoro atipico individuale, dando vita cosi' ad un processo di forte oscillazione dei contratti e ad una precarizzazione della vita lavorativa degli individui. Si sono notevolmente ridotti gli spazi di potere sindacale e di difesa degli interessi dei dipendenti mentre si sono allargati gli spazi di azione di sfruttamento da parte del ceto imprenditoriale. La difesa dell'articolo 18 e' la salvaguardia rispetto al vero obiettivo delle classi conservatrici e dell'apparato tecnocratico delle elites e delle lobby industriali in Italia: il totale annientamento dello Statuto Dei Lavoratori ed un presumibile ritorno ad una corporativizzazione dei mestieri e sulla scorta di un potenziale cambiamento in senso regressivo della Costituzione. L'abolizione di tale regola e' la pugnalata che aprirebbe definitivamente la ferita all'emorragia dei benefici ottenuti dai lavoratori ben 44 anni fa. Evitiamo quindi che il nostro corpo sociale venga accoltellato da questi potenziali omicidi della dignità del lavoro.


(2)- http://www.camera.it/parlam/leggi/03030l.htm

Fonte di ispirazione: Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce Contro la flessibilità- 2007, Editori Laterza - Bari

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